
Ultimi giorni. Si sente.
Le valigie iniziano a sfaldarsi come la nostra sanità mentale, i calzini spaiati aumentano e i bambini ormai confondono i giorni della settimana.
Ma Malta non ha ancora finito con noi. Oggi si va alla Valletta.
La capitale ci accoglie con salite, discese, pietra dorata, facciate teatrali e un sole maltese che gioca al gioco “chi si scioglie per primo?”.
Ci infiliamo tra bastioni, cattedrali, terrazze vista mare e cortili che sembrano usciti da un film storico.
I ragazzi cercano l’ombra come vampiri educati, Nonna Paola tiene il passo con tenacia olimpica, Nonna Valentina, pur con la pressione sotto i tacchi, non molla di un centimetro (eroina silenziosa), e Nonno Loris si gode tutto con l’aria saggia di chi ci vede lungo.
E noi?
Noi ci guardiamo attorno e respiriamo: La Valletta non si visita, si ascolta.
Ogni pietra racconta qualcosa. Ogni balcone ti parla in tre lingue. Ogni scorcio sul mare ti dice: “fermati”.
Siamo in sette.
Più stanchi che all’inizio, sicuramente.
Ma anche più complici. E — forse — più ricchi (di ricordi, non di soldi).
A La Valletta ci siamo arrivati con le forze contate… e ce ne siamo andati con qualcosa in più dentro. Non sappiamo cos’è, ma ci piace tenercelo stretto.
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